Che succede alla mia famiglia se me ne vado?

Intervista a Robin Hobb, la scrittrice ospite d’onore di Lucca Comics & Games 2018
di Francesca Garello
[pubblicato su RiLL.it nel novembre 2018]

A Lucca Comics & Games 2018 ho avuto l’onore e il piacere di intervistare una delle mie scrittrici fantasy preferite, Robin Hobb.
Nata in California, è cresciuta in Alaska e attualmente vive a Tacoma, nello stato di Washington. Il suo vero nome è Margaret Astrid Lindholm, ma scrive sotto due pseudonimi: Megan Lindholm (con cui scrive soprattutto racconti brevi e fantascienza) e il più conosciuto Robin Hobb. Con questo nome ha esordito nella letteratura fantasy nel 1995 con il romanzo “The Assassin Apprentice”, primo della trilogia dei Lungavista, pubblicato in Italia nel 2003 come “L’apprendista assassino” (ed. Sperling & Kupfer).

In Italia Robin Hobb è famosa soprattutto per la serie dei Lungavista. Si tratta di un’ambientazione fantasy piuttosto tradizionale, che racconta con profondità e partecipazione una magnifica storia da “romanzo di formazione”. La trilogia narra infatti le vicende di FitzChevalier, figlio bastardo di un re destinato a diventare l’assassino di corte.
Robin Hobb ha un gran dono nel descrivere le personalità dei suoi personaggi, ricche e profonde, spesso contraddittorie. Seguire l’evoluzione del carattere di FitzChevalier attraverso le difficoltà che incontra nella vita è una delle caratteristiche più interessanti di questi romanzi (a parte i draghi, ovviamente!).
L’ultimo romanzo della serie, “L’assassino. L’ultima caccia”, è uscito nel 2017 (Sperling & Kupfer), concludendo le vicende di Fitz dopo quasi venticinque anni e lasciandoci tutti un po’ orfani.

Robin Hobb è una scrittrice prolifica, e ha prodotto una grande quantità di cicli narrativi, tutti più o meno connessi tra loro (una lista ragionata si può consultare su Wikipedia). La saga dei Lungavista infatti si inserisce nel quadro più ampio del Mondo dei Sei Ducati dove si svolgono, spesso in parallelo, diverse serie di romanzi. I miei preferiti sono quelli della trilogia dei Mercanti di Borgomago (The Liveship Traders Trilogy), pubblicata in Italia con suddivisioni che ne hanno alterato l’originaria struttura tripartita. Queste storie si svolgono in una regione periferica rispetto a quella dei Lungavista, e io le prediligo perché sono un fantasy un po’ atipico: narrano infatti di navi viventi che parlano con i propri capitani ed equipaggi, sullo sfondo di una società di intraprendenti mercanti e un mare percorso da feroci pirati e magici serpenti marini.

A Lucca ci siamo incontrate in una saletta di Villa Gioiosa, ancora una volta teatro di esperienze interessanti e divertenti. Io ero accompagnata da mia figlia Livia, in veste di fotografa ma soprattutto di assistente alla linguistica (per aiutarmi a rendere più comprensibile ciò che eventualmente io non fossi riuscita a pronunciare correttamente, tipo la diabolica parola “pseudonym”) e Robin da sua figlia Kat, che gestisce per lei i social media.
Nonostante il tempo a nostra disposizione non fosse poco è veramente volato, cullato dalla voce sommessa di Robin e riempito dalla sua cortesia e disponibilità.

Cominciamo proprio dall’inizio. Ha sempre saputo che sarebbe stata una scrittrice? La sua è stata una vocazione precoce?

Ho inventato storie fin da quando ero molto piccola. Ho cominciato a leggere molto presto, e mentre leggevo mi dicevo spesso: “Questa è una bella storia, ma io la potrei scrivere meglio, anzi potrei scrivere una storia migliore”. Perciò ho cominciato a scrivere per conto mio. Arrivata all’adolescenza avevo un sacco di quaderni pieni di inizi di storie, alcune sezioni intermedie, e nessuna conclusione. Non riuscivo a impegnarmi abbastanza per finire una storia. Tante buone idee, nessuno sviluppo.
A 18 anni (ero già sposata!) ho cominciato a mandare in giro racconti per cercare di farli pubblicare. I primi li ho venduti in un circuito molto ristretto, quello delle pubblicazioni per le Sunday Schools (scuole di catechismo, NdR). Erano storie molto corte, una paginetta. Non avevano una morale alla fine, ma raccontavano di persone che decidevano di fare qualcosa di giusto. Erano un mezzo per racimolare qualche soldo.
A quei tempi vivevamo in un paesino molto piccolo, Chiniak, nell’isola di Kodiac, in Alaska. Eravamo molto isolati. L’isola di Kodiac è uno dei pochissimi luoghi negli USA che durante la Seconda Guerra Mondiale fu fortificato in vista di un’eventuale invasione giapponese. Le strade che conducono da Chiniak alla città più grande, Kodiac appunto, sono tutte tortuose, con un andamento a zig-zag, in modo da rendere impossibile alle forze di invasione di percorrerle velocemente. Per fare i circa 25 chilometri tra Chiniac e Kodiac ci volevano due ore! Io mi recavo in città ogni due settimane e andavo sempre in biblioteca.
L’isola di Kodiac era un posto molto remoto, dove ho potuto creare storie e provare a diventare una scrittrice.

Sembra proprio la trama di un romanzo: una giovane ragazza che vive in un’isola remota, in una fortezza preparata per un’invasione!

Effettivamente è vero!

Visto che scrivere è sempre stata per lei un’attività così importante vorrei chiederle cosa l’ha spinta a usare uno pseudonimo. Anzi, lei ne ha ben due!
Parte del piacere di pubblicare le proprie storie risiede anche nel legare il proprio nome ad esse. Perché nascondersi dietro un altro nome?

Come molti scrittori, io sono un tipo introverso. Non sono a mio agio circondata da persone che non conosco. Non gradirei che la gente mi fermasse per strada dicendo: “Ehi, ma tu sei la scrittrice!”
L’ho visto accadere ad alcuni miei amici che sono diventati molto famosi, ho visto che impatto ha avuto questa cosa sulle loro vite e su quella della loro famiglia. Quindi preferisco tenere la mia vita separata in “scatole”.
Pochissimi tra i miei vicini di casa sanno che scrivo. Così me ne posso andare al negozio di mangimi a comprare il becchime per le galline, chiacchierare con gli amici e avere la mia vita. È un modo per mantenere la mia privacy.

Però ormai anche il suo pseudonimo “Robin Hobb” è molto famoso... Chiunque può andare su Internet e legare questo nome al suo viso.

Sì e no.
(mi mostra la copia del suo ultimo libro, “L’assassino. L’ultima caccia”, che ho portato con me)
Non c’è la mia faccia sui miei libri, per lo meno quasi mai. E comunque quando sono a casa non ho lo stesso aspetto delle foto. Sono vestita in modo diverso, da fattoria. Così riesco a godermi la mia casa senza il timore di sentir bussare alla porta e trovarmi davanti uno sconosciuto, oppure che qualcuno mi apra il cancello e faccia scappare i cani.
Da quando vivo a Tacoma è capitato che qualche studente universitario bussasse e dicesse: “Scusi, ma lei è Robin Hobb??”. Allora l’ho fatto entrare, gli ho offerto una tazza di tè e abbiamo fatto due chiacchiere, ma sono stati casi molto rari. Una volta qualcuno ha legato alla mia recinzione dei palloncini con un biglietto di auguri per il mio compleanno, un gesto carino che mi ha fatto molto piacere perché rispettoso della mia privacy.

In Italia lei è famosa soprattutto per i suoi romanzi fantasy, ma lei ha scritto anche fantascienza. Che differenze trova nello scrivere l’uno o l’altro genere?

Non scrivo tantissima fantascienza in effetti. Soprattutto la scrivo con l’altro mio pseudonimo, Megan Lindholm.
Per me la fantascienza è più difficile. È tutto un altro stato mentale. Nel fantasy, per me, tutto gira attorno ai personaggi. Nella fantascienza invece direi che la cosa importante è di avere una domanda forte intorno alla quale organizzare la narrazione: che succederebbe se andassimo su Marte e qualcuno fosse lasciato là per sbaglio? Oppure: che succederebbe se avessimo una colonia sulla Luna e questa decidesse di ribellarsi e autogovernarsi? Questo è un romanzo di Robert Heinlein, “La luna è una severa maestra”.
Per me la fantascienza è più una questione di domande iniziali che di personaggi.

In apparenza, la fantascienza sembra offrire maggiori possibilità di inventare ambientazioni “women-friendly” perché parla di un futuro ancora non accaduto, in cui è si è liberi di immaginare qualunque cosa. Invece il fantasy sembra ricondurre al passato, e quindi essere indissolubilmente legato a ambientazioni in cui le donne hanno un ruolo più secondario. Qual è la sua opinione di scrittrice?

Io mi sento completamente libera in qualunque cosa scrivo.
Sono cresciuta in Alaska, e lì ho passato la prima parte della mia vita. La cultura dei nativi americani che vivono là è matriarcale. La posizione sociale è legata a quella materna: appartieni al clan di tua madre. Tuo padre è un tipo simpatico, ma è tuo zio materno, che è del tuo stesso clan, l’uomo importante della tua vita.
Ho utilizzato il riflesso di questa organizzazione sociale per la società delle Isole Esterne, in cui il padre non ha un gran ruolo nella vita dei suoi figli, perché il suo ruolo importante è quello di zio per i figli del suo clan. È un diverso tipo di struttura familiare che però, se si guarda dal punto di vista biologico, è incredibilmente logico: tuo padre... beh, uno spera che sia effettivamente tuo padre, mentre tuo zio materno ha con te un sicuro legame di sangue.
In molte altre culture dei nativi americani le donne possiedono la terra e la coltivano. Gli uomini vanno a caccia, ma sono le donne che mettono via il cibo per l’inverno. Non sono “casalinghe”, sono quelle che governano. Queste sono le culture che mi interessano, le ambientazioni che mi fa piacere descrivere: storie in cui le protagoniste si trovano in una situazione di parità, anziché avere personaggi femminili che piagnucolano (“Oh, sono sola e disperata, l’unica donna che si ribella e combatte”). Quel tipo di storie non mi interessa più.

Parlando di fantasy come genere letterario, Orson Scott Card (l’autore de “Il gioco di Ender”) ha detto che lei “probabilmente ha definito lo standard per il moderno romanzo fantasy serio”.

È davvero un enorme complimento.

Lo è davvero. E quindi vorrei chiederle: cos’è un romanzo fantasy serio?

Quando da bambina leggevo le favole, una cosa non mi piaceva dei personaggi: il Principe Azzurro, per esempio, dall’inizio alla fine della storia rimane sempre lo stesso. Inoltre, accadevano cose tremende ai protagonisti, ma il lettore era indotto a riderne.
Perciò la prima volta che ho letto “Il Signore degli Anelli” è stata anche la prima volta in cui mi sono imbattuta in un’ambientazione completamente sviluppata, a partire dal linguaggio, e in cui i personaggi venivano presi sul serio. E leggendo mi appassionavo a quel che capitava loro. Ne “Lo Hobbit” ci importa di sapere cosa accade a Bilbo, ci interessa la sorte dei nani, sono tutte persone che noi speriamo riescano ad arrivare alla fine del libro.
Fu una cosa meravigliosa. Immediatamente capii che volevo scrivere storie in cui il lettore potesse rispettare i miei personaggi, interessarsi alla loro sorte. Non volevo che fossero buffi e un po’ ridicoli. Volevo scrivere di persone “serie”.
Leggere Tolkien è stato come aprire gli occhi su nuove opportunità, e credo che anche per molti altri autori americani della mia generazione sia stato così.
Ho cominciato l’università nel 1969. C’erano già autori che creavano mondi articolati, per esempio Edgar R. Burroughs con la serie di Marte, o Fritz Leiber con quella di Fahfrd e il Gray Mouser. Mi sono piaciute molto quelle storie, ma non avevano profondità, non riuscivo a identificarmi. Tarzan, Conan non hanno famiglia, genitori, fratelli o sorelle. Se ne vanno in giro senza alcun legame.
Se qualcuno fosse venuto da me quando avevo 17 anni e mi avesse detto: “Sei stata scelta per partire e andare a salvare il mondo” mi sarei guardata intorno un po’ spaurita e avrei detto: “Ma io ho il mio amato cane, i miei genitori, mi occupo del mio fratellino ogni giorno, che succede alla mia famiglia se me ne vado?”.
Una cosa che mi è piaciuta molto ne “Il Signore degli Anelli” è quando Frodo deve lasciare la Contea e dice addio a tutti i suoi posti preferiti. Si capisce che Frodo ha radici e legami, che sta sacrificando molto per quell'avventura.

Parlando di storie complesse e di personaggi con personalità sfaccettate e legami, è il momento di citare la lunga saga dei Lungavista, che dopo tante avventure è arrivata alla fine. L’anno scorso infatti è uscito il volume conclusivo. Che sensazione prova? Sollievo? Tristezza?

Sollievo non direi. Si tratta di personaggi dei quali ho scritto per venticinque anni, una bella fetta della mia vita. Ho passato un sacco di tempo con loro, sono come persone di famiglia. E ora che la storia è conclusa provo una sensazione dolceamara.
È un po’ come riportare una nave nel porto, sapendo che non salperà mai più. La missione è compiuta, e direi compiuta bene. Tuttavia è finita. E quindi c’è una punta di rimpianto.

Ma magari la fine di questa storia è l’inizio di un’altra?

Ah, certo. Ogni storia finisce dove un’altra inizia. È come un albero: altri rami, altri germogli, tutto intrecciato.

Questo è un aspetto che mi è sempre piaciuto molto nei suoi lavori: tutto è collegato, anche linee narrative distanti sono connesse dalla presenza magari di personaggi che compaiono in differenti ambientazioni, e così ci si sente sempre immersi e partecipi, anche se non si è letto proprio tutto.

Grazie, questo mi fa molto piacere.



Oggi sembra che la letteratura fantastica debba avere per forza la forma della trilogia. Lei però la usa da prima che diventasse un obbligo, una moda. La saga dei Lungavista, o meglio le vicende del mondo dei Sei Ducati, si sono sviluppate in molti volumi, sempre però con una struttura di trilogie. Cosa le piace in questa suddivisione della storia?

Se si guarda alla tradizione inglese dello storytelling il numero tre è spesso presente. Abbiamo i tre orsi, i tre porcellini, oppure storie in cui tre principi vanno a cercare fortuna (e i primi due falliscono ma il terzo ha successo), ci sono tre desideri, e così via. A me questo fa venire in mente un inizio, uno svolgimento e una conclusione o, a voler essere più specifici, l’enunciazione di un problema, la rivelazione di ciò che si deve fare per risolverlo, la risoluzione del problema.
Questa struttura mi piace perché mi consente di espandermi, esplorare anche i personaggi minori. E penso veramente che nel fantasy, dove l’ambientazione è importante, questa struttura offra spazio per disporre dettagli sul mondo o sul sistema magico.
Se scrivo un romanzo che si svolge nel mondo contemporaneo non devo spiegare che una Rolls-Royce è una macchina migliore di una Chevrolet. Il lettore lo sa. Se scrivo: “Lei indossò un abito da sera invece dei soliti jeans e maglietta”, hai tutto quello che serve in un’unica frase. Ma in un libro fantasy, se non spiego che cosa vuol dire indossare una camicia rossa... è segno che sei disposto morire per il tuo paese o che sei un seguace di Garibaldi?
Quindi, poter distribuire la storia in più pagine rispetto a un libro solo consente di rendere il mondo che stai descrivendo molto più reale.
In realtà però sospetto che stiamo per assistere a un’inversione di tendenza, in favore di libri autoconclusivi, stand alone. Molti lettori amano i libri di grande formato o le saghe, ma qualche volta si ha voglia anche di un libro che si può leggere in un solo week-end. A volte una storia è buona così com’è, allungarla su una serie di volumi è un po’ come... spalmare il burro su troppo pane, per usare le parole di Bilbo.

Arthur C. Clarke ha detto: “Qualunque tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia”. È una frase molto famosa. Ma è interessante quel che gli rispose lo scrittore Larry Niven: “Qualunque magia definita in modo sufficientemente rigoroso è indistinguibile dalla tecnologia”.

È verissimo.

Ma sono davvero così intercambiabili, la magia e la tecnologia?
Nella trilogia dei Mercanti di Borgomago le navi sono animate, hanno personalità diverse e sfaccettate. Una ama persino giocare d’azzardo con l’equipaggio!
È il corrispettivo di un’intelligenza artificiale, di un’astronave in un’ambientazione di fantascienza?

In effetti l’ispirazione per le navi viventi deriva proprio da un’astronave, da un romanzo di fantascienza di Anne Mc Caffrey intitolato “La nave che cantava” (The Ship who Sang, 1961). L’idea mi è piaciuta e, come facevo da bambina, l’ho rielaborata.
Direi però che la differenza sta nel fatto che in una intelligenza artificiale la questione comincia dall’esterno, con qualcuno che deliberatamente pone le basi per realizzarla. Invece le navi viventi di Borgomago hanno dei ricordi sepolti al proprio interno e in seguito assorbono i ricordi e le esperienze delle persone che vivono e muoiono a bordo. Perciò sono creature a sé, dotate di una propria cultura, ma in un certo senso anche prigioniere della cultura in cui si trovano a vivere. È un po’ come prendere una persona di una cultura indigena e immergerla in un’altra... sì, ha le sue convinzioni, i suoi modi profondamente radicati dentro di sé, eppure deve vivere con i modi e le convinzioni di altri.
È una riflessione interessante. Forse dovrei appuntarmela e svilupparla.

Si dice che lo scrittore di fantascienza è tenuto a dare spiegazioni per tutto ciò che inventa, mentre quello di fantasy può fare come vuole (e c’è una punta di cattiveria in questa affermazione). I romanzi fantasy richiedono preparazione o studio, secondo lei?

Direi di sì. Ci sono libri che ho messo da parte pensando “No, non posso leggere questa roba”, perché non avevano la profondità di un mondo vero.
Nel fantasy è necessario che il lettore creda nel mondo che abbiamo creato, durante tutta la lettura.
Per esempio, si può scrivere che in una certa ambientazione il grano cresce d’inverno. Sembra un’assurdità, ma dipende da come questa cosa viene esposta. Magari ciò ci induce a andare avanti a leggere perché ci si chiede: forse è un tipo speciale di grano? Che succede in realtà in questa storia?
Però se ci si rende conto che l’autore chiaramente non ha idea di come funzioni un campo di grano, come si può poi credere a cose come lucertole giganti o altre cose più strane? Si perde la voglia di andare avanti.
Perciò lo scrittore di fantasy deve fare almeno qualche ricerca di base per convincere i suoi lettori che il suo protagonista è veramente un fabbro, o un apicoltore eccetera.
Per esempio, per creare Molly, uno dei miei personaggi nella saga dei Lungavista, ho dovuto documentarmi su come si fanno le candele, perché è quello che lei fa. E su come si allevano le api, che producono la cera che Molly usa per le sue candele. Ovviamente non è che nei romanzi Molly a un certo punto se ne esce con una lezione di apicoltura. Non si deve scrivere tutto quello che si impara su un certo argomento. Deve far parte delle conoscenze di quel personaggio. Lo deve sapere Molly.

Quella delle Navi di Borgomago è un’ambientazione particolare per un romanzo fantasy, con molti dettagli sulla navigazione e la gestione di una nave mercantile, che denotano grande competenza. Ha fatto ricerche specifiche per questo?

Mio marito è stato per molti anni imbarcato come tecnico sulle navi da pesca che partivano da Kodiac. Anche suo padre è stato un pescatore e un marinaio, e persino suo nonno. A casa nostra c’è una grande varietà di quegli strani oggetti che i marinai portano a casa dai loro viaggi (sestanti, vertebre di balena, vecchi giornali di bordo, manuali su come distribuire il carico su una nave da trasporto...). Questo, e ovviamente parlare con mio marito, ascoltare le storie divertenti - e a volte non così divertenti - raccontate dai suoi compagni, ecco, tutto questo è stato un meraviglioso materiale di documentazione per l’ambientazione delle navi di Borgomago. Ho anche utilizzato libri e memorie di marinai trovati in biblioteca.
Insomma, se il lettore deve credere che esistono delle navi vive, come minimo io devo saper descrivere come funziona una nave “normale”.

Le piacerebbe veder trasformate le sue storie in film? Quale le sembra più adatta, o quale le piacerebbe di più vedere sullo schermo? Preferirebbe film o serie televisive?

Mah. Secondo me nessuno scrittore vorrebbe veramente vedere i suoi romanzi trasformati in un film. Finché la storia rimane nel libro è al sicuro, non cambia, nessuno ci mette le mani. Se invece dai il permesso di adattarla, non puoi sapere come cambierà.
Questo riguarda anche i lettori. Quando sono andata a vedere “Il Signore degli Anelli” di Peter Jackson ero consapevole che quello che avrei visto non sarebbe stato il mio Signore degli Anelli. Avrei visto l’interpretazione di Peter Jackson, la sua esperienza con il libro, diversa dalla mia.
Immagino che sia una specie di scommessa che ogni scrittore deve accettare ogni volta che acconsente a trasformare in film le sue opere. Credo che uno dei motivi per cui la serie televisiva de “Il Trono di Spade” ha avuto tanto successo è che George Martin ha avuto un ruolo forte nella sua realizzazione. Ha potuto tenere il timone della sua nave, per così dire.
Se io dovessi scegliere uno dei miei lavori per il cinema probabilmente preferirei che fosse uno dei miei racconti, piuttosto che un romanzo. Trasferire una storia complessa in un film non è facile. Quindi sarebbe meglio scegliere uno dei racconti pubblicati con lo pseudonimo di Megan Lindholm, magari “A Touch of Lavender” (1989, mai tradotto in Italia, NdR) oppure “La dama d’argento e l’uomo di mezza età” (The Silver Lady and the Fortyish Man, 1989, pubblicato in Italia nell’antologia Millemondi Inverno 5, 1995, Mondadori). Per un libro come questo (mostra “Lassassino. L’ultima caccia”) ci sarebbe bisogno di troppo adattamento per un solo film. Meglio allora una serie televisiva, nella speranza di avere abbastanza tempo e spazio per introdurre bene tutti i personaggi e dare a ciascuno profondità.

Siamo all’ultima domanda, che è quasi obbligatoria per noi lettori: sta preparando qualcosa di nuovo?

Ho attualmente due progetti: uno riguarda il passato dei Lungavista, in particolare la storia di dama Pazienza al tempo in cui era ragazza, prima di sposare Chevalier, il padre di Fitz. L’altro progetto è un libro di Megan Lindholm, un urban fantasy ambientato in una Tacoma alternativa. È molto divertente immaginare la propria città sotto un punto di vista magico, pensare a cosa sarebbe diverso, e come, e cosa invece resterebbe uguale. Però siccome ho 66 anni e sto cominciando ad avere un po’ di artrite alle mani, specialmente al pollice che uso per la barra spaziatrice, scrivere è diventato un tantino doloroso. Non posso più scrivere per molte ore di seguito. Ci vorrà un po’ di tempo.

Beh, non ha importanza. Si prenda tutto il tempo che vuole! Noi l’aspettiamo.


L’intervista finisce e io chiedo a Robin di firmarmi l’ultimo libro della saga dei Lungavista. È una dedica molto carina e di certo mi fa felice però... come ha detto anche lei, è un momento un po’ dolceamaro. FitzChevalier esce di scena, e con lui si chiude una bella parte della mia vita di lettrice fantasy.
Per consolarmi comincerò a studiarmi la planimetria cittadina di Tacoma, in modo da essere pronta a immergermi in una nuova avventura!


Un sentito ringraziamento è dovuto da RiLL a Nicola Bosi, guest-assistant di Robin Hobb, grazie al quale questa intervista ha potuto essere realizzata.
Le foto che corredano l'articolo sono di Livia Alegi.

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