Amalgama

di Ivo Torello
Terzo classificato al VI Trofeo RiLL

Immobile, sdraiato sul pavimento del bagno, Claudio esaurì anche la forza per gemere e si arrese al dolore. Sentiva il corpo intero pulsare al pari d’un dente cariato come se ossa, muscoli e tendini si stessero lacerando dall’interno e sovraccaricassero il cervello con fremiti di inaudita sofferenza.
Le viscere, amalgamate a quelle del cadavere che aveva accanto, suggevano feci in cambio di sangue; avvertiva i fluidi infetti scorrere dal corpo morto al proprio attraverso il budello di carne che li univa. Ciò nonostante aveva scartato l’idea di recidere quell’osceno cordone ombelicale: a quanto ne sapeva, si sarebbe mutilato un sostanzioso tratto di intestino e sarebbe morto prima di contare fino a dieci.
Aveva ucciso la vicina di casa conficcandole un cacciavite nell’orbita destra quando la fusione era all’inizio, ma non aveva potuto impedire alla malattia di ridurlo in quelle condizioni. Era diventato come le vittime del contagio che aveva visto in tivvù, tutti gli ignari disgraziati che barcollavano, occhi sbarrati e sorriso ebete, uniti per le cosce o per le spalle come gemelli siamesi, e quelli che aveva guardato portare via dalle case vicine saldati per la schiena, il pube, la faccia. Adesso, ciò da cui si sentiva sopraffare, ancor più che il dolore e il disgusto, era una profonda frustrazione. Nonostante la buona scorta di cibo, la reclusione, le norme igieniche che s’era imposto, anche lui era stato infettato e si ritrovava unito a un altro essere umano.
Provò a mettersi seduto puntellandosi sui gomiti, ma la morsa acuminata del dolore lo ghermì con forza centuplicata lasciandolo boccheggiante, il viso contratto come un pugno chiuso. Afferrò un asciugamani e lo avvolse intorno alla testa del cadavere per non vederne la faccia più che per tamponare l’emorragia. Toccandolo, percepì il corpo della donna come se fosse una gamba semi addormentata. In sé la cosa pareva completamente assurda, ma le vittime dell’epidemia s’erano scoperte, oltre che unite ad altri corpi, in perfetta simbiosi con essi. Anche se non avveniva l’amalgama dei tessuti nervosi, coloro che la malattia aveva trasformato in gemelli siamesi scoprivano di condividere le sensazioni l’uno dell’altro (o degli altri); era come una variazione del fenomeno dell’arto fantasma: invece che un pezzo di corpo mutilato veniva percepito un intero corpo aggiunto.
Stringendo i denti si protese sino al rubinetto del bidet e lo aprì. Tentò inutilmente di raccogliere un po’ d’acqua nella mano, quindi prese una spugna che imbevve e succhiò avidamente. L’acqua fresca gli scorse in gola, placandone un poco il bruciore. Aveva bestemmiato, imprecato e urlato sino a perdere la voce; nessuno, però, era intervenuto in suo aiuto. C’era da immaginarlo: sarebbe trascorso un mucchio di tempo prima che i sopravvissuti s’arrischiassero a tornare nei centri abitati.
Una delle ultime notizie che Claudio aveva appreso dalla tivvù era che una équipe di scienziati finlandesi aveva scoperto una cura in grado di arrestare l’epidemia e i suoi effetti. Non che se ne conoscessero esattamente le cause: per certi si trattava di un batterio spaziale, per altri di un virus biotecnologico e per altri ancora di un castigo divino. La stampa aveva battezzato la malattia con prematura sufficienza il morbo dell’imbecille perché, almeno all’inizio, il decorso era apparentemente benigno: un trascurabile innalzamento della temperatura, il lieve ingrossamento dei linfonodi, uno stato di diffuso benessere. Dopo quarantotto ore cominciava la fase cosiddetta esilarante e i contagiati diventavano garruli, amici del mondo, piacevoli conversatori; potevano essere individuati solo dal colorito rubizzo, dalla sudorazione abbondante e dalla peculiare cedevolezza dei tessuti. Altri due o tre giorni e sprofondavano nella beatitudine: lo sguardo si faceva assente, il sorriso ancor più ampio, le membra atoniche e flaccide; venivano ricoverati negli ospedali sovraffollati in preda al delirio mistico, sproloquianti di amore e fratellanza. Infine subentrava la fase orgasmica: tre, quattro ore di intenso e ininterrotto piacere li rimettevano in piedi, instupiditi e pericolosi.
Prima che gli effetti del virus FRBA (era quello il nome scientifico del morbo dell’imbecille) apparissero chiari, s’era sviluppato un autentico mercato nero della pestilenza: gli effetti così simili a quelli di una perfetta droga euforica avevano spinto tanti, in gran parte del mondo, a sottoporsi volontariamente al contagio; qualcuno era persino riuscito a far soldi vendendo saliva, urina e sangue prima che l’ FRBA diventasse troppo comune per essere considerato un bene. O, appunto, prima che se ne rivelassero gli effetti collaterali. Adesso Claudio li poteva vedere su di sé. Un sé allargato, che comprendeva anche il cadavere della sua vicina di casa.
Bevve ancora dalla spugna poi, nonostante la gola in fiamme, sentí il bisogno di accendersi una sigaretta. Impiegò qualche momento per realizzare che in tutta la vita non aveva mai fumato; era lei, la donna con le dita tanto gialle da sembrare finte, a volerlo fare, o meglio una sintesi dei loro organismi che era in astinenza di nicotina. Rabbioso, afono, Claudio le ringhiò di non rompere, che doveva capire di essere morta.
Si ordinò di cercare una via di salvezza: per quel che ne sapeva non avrebbe impiegato molto per morire dissanguato, di setticemia o per chissà che altro. Cautamente tastò il budello tumefatto che gli fuoriusciva dall’addome per andare a congiungersi col basso ventre della donna e avvertì lo stesso dolore che avrebbe sentito spremendo l’ascesso di un’infezione. Fece ruotare gli occhi e appoggiò la nuca al bordo della vasca da bagno. Se l’avesse ammazzata vicino al telefono avrebbe potuto sperare in un miracolo. A quanto gli era parso di udire, qualcuno stava sorvolando la zona in elicottero.
Tutto, però, era andato storto, a cominciare dalla strana forma di FRBA che lo aveva colpito: nessun sintomo, nessuna fase esilarante o orgasmica, niente di niente. E mentre il telegiornale trasmetteva le immagini delle prime Masse, titani di corpi amalgamati, che strisciavano come lumache di mille tonnellate lasciandosi dietro una scia di sangue, e si ripeteva d’aver fatto la cosa migliore a barricarsi in casa, la vicina era entrata sfondando la portafinestra dello studiolo, l’unica rimasta con l’avvolgibile alzato.
Era comparsa sulla soglia del salotto: nuda, burrosa, sogghignante, con la pelle che sembrava colarle intorno al corpo, flaccida come un grande vestito bagnato. Aveva mosso gli occhi vitrei sino a inquadrare Claudio e lui, impietrito dal panico, a sua volta era rimasto a fissarla.
Poi la donna gli si era lanciata addosso, strillando come una scimmia. Riavutosi dall’iniziale sorpresa, Claudio era riuscito a immobilizzarla con le spalle al muro, stringendole il collo viscido con più forza possibile. Allora era accaduto: le dita erano penetrate nella carne improvvisamente duttile come gelatina. Con uno scatto istintivo, Claudio aveva fatto un balzo indietro. S’era guardato le dita, mentre la donna, tossendo e rantolando, crollava sulle ginocchia gonfie producendo il rumore di uno schiaffo bagnato. Con orrore aveva realizzato di essere anch’egli preda della malattia. Il suo corpo era già pronto alla fusione; il virus da cui nemmeno sapeva di essere stato infettato lo aveva trasformato in materia duttile, spasmodicamente lasciva. S’era sentito tradito dalla propria biologia.
Aveva provato a lasciare la stanza ma la donna, con un movimento repentino, lo aveva afferrato per una caviglia. Col piede libero, Claudio le aveva sferrato un calcio in faccia: era stato come colpire un oggetto di gomma, molle ed elastico. Aveva perso l’equilibrio, era caduto e il viso della donna gli si era parato innanzi: alito che odorava di pesce in decomposizione, guance cadenti, pelle untuosa su cui la luce del televisore, del godzilla di corpi straziati, si rifletteva con rapidità epilettica.
La donna aveva denudato con violenza il ventre di Claudio e s’era dimenata, inarcandosi come un verme pallido e grasso, sbattendo le gambe massicce, sino a far aderire la propria pelle contro quella di lui. Immobilizzato dal peso di quel corpo, lui non aveva potuto opporre che una resistenza minima, del tutto vana.
Aveva sentito le proprie viscere rimestarsi, mutare forma mentre si amalgamavano ai tessuti della donna. Un accenno di dolore era stato immediatamente sostituito da una sensazione di solleticante piacere che gli aveva obnubilato la mente per qualche istante. Aveva guardato l’assalitrice, che non smetteva di sorridere in modo idiota; col corpo di lei sul proprio, una sola cosa con esso, si era sentito sprofondare nell’incubo che lo aveva perseguitato da quando era cominciata l’epidemia. Sullo schermo seguitavano a scorrere le immagini delle immense montagne di carne, orge di teste, arti, toraci mescolate dalla distanza nella pelle gibbosa di un unico organismo amorfo e cieco, con mille e mille bocche che urlavano all’unisono.
Dopo quell’amplesso, la donna si era mossa e Claudio aveva potuto vedere il neonato abominio carnoso che li univa. Erano rimasti immobili, in silenzio, per un tempo che solo la televisione sembrava prendersi la briga di calcolare. Poi lei si era addormentata. Claudio l’aveva sentita parlare. Appena un sussurro. Vengono e il sorriso inestinguibile s’era come raddolcito. Vengono tutti e aveva riso piano. Tutti insieme.
Claudio, resistendo allo stesso, subitaneo torpore, aveva cominciato a guardarsi attorno soppesando in fretta le proprie possibilità; aveva visto il cacciavite a portata di mano e, ancor prima di chiedersi cosa ne avrebbe fatto, lo impugnava saldamente. La vicina aveva spalancato le palpebre e con un fendente preciso, Claudio le aveva trapassato il bulbo oculare destro; un colpo solo e la punta d’acciaio aveva frantumato le ossa e trafitto il cervello. Ma non l’aveva uccisa: la donna s’era alzata, aveva urlato per lo stesso osceno dolore che riverberava nel sistema nervoso di Claudio e lui non aveva potuto fare altro che alzarsi a sua volta. Quindi si erano mossi a casaccio, imbrattando di sangue ogni cosa, sino a quando non erano crollati entrambi sul pavimento del bagno. Capolinea.
Claudio fu strappato da quel ricordo dal rumore dell’elicottero. Forse una speranza poteva ancora esserci. Forse... se solo fosse riuscito a raggiungere il telefono... strinse i denti e spinse il corpo della donna. Il cordone di carne si tese un poco, strappandogli un gemito rauco. Spostò il peso da una natica all’altra, aiutandosi con le gambe debolissime per avvicinarsi nuovamente al cadavere. Ansimando come dopo uno sforzo immane, capì che si trattava di un’impresa oltre le proprie facoltà. Se anche il telefono rappresentava la sola possibilità di sopravvivenza, essa gli era negata.
Si sentì pervadere da una rabbia cupa e impotente. Se almeno non ci fosse stato l’elicottero a riaccendere la speranza, avrebbe potuto arrendersi alla malattia e morire in pace. Si strinse la testa tra le mani, socchiuse le palpebre e ascoltò il proprio cuore rallentare i battiti, col dolore che pareva crescere a ogni pulsazione.
Da fuori giunse un tonfo. Poi un altro. E un altro ancora. Il lampadario oscillò. Una boccetta di disinfettante, in bilico sul mobiletto, cadde e rotolò tra le cosce della donna. Claudio si domandò cosa stesse succedendo. Possibile che si trattasse di una Massa? Che le persone del posto si fossero amalgamate sino a trasformarsi in uno degli orrori mostrati in tivvù?
Il tonfo successivo fu come un boato. Gli antifurto delle poche auto rimaste si unirono in un coro bitonale. Dal soffitto cadde dell’intonaco marcio. L’acqua del water ribollì. Immaginò il mostro di corpi vischiosi che arrancava e strisciava tra i palazzi, allungando arti fatti di uomini, donne e bambini alla ricerca di nuova carne da aggiungere a sé stesso. Gli parve d’udirne la ridda di voci, la presenza immane, la molle grandiosità che si traduceva in quei tonfi assordanti.
Quindi la porta di casa venne forzata; Claudio udì le serrature cedere con una specie di scoppio, il legno spaccarsi, poi i passi scalzi di una, due, tre persone. Trattenne istintivamente il respiro, terrorizzato.
Sulla soglia, avvolto nelle semi tenebre, comparve un uomo: nudo, sulla trentina, sotto peso, con un inizio di calvizie. Attaccata alla spalla sinistra c’era la testa di una vecchia il cui collo, come disossato, si allungava fin dietro al muro, dove lo sguardo di Claudio non poteva arrivare. Stiamo insieme, disse l’uomo con un sorriso gentile. Tutti insieme, aggiunse, bello.
Claudio mormorò loro di lasciarlo in pace: la voce gli sfuggì come un sospiro, troppo debole perché persino lui s’accorgesse d’aver parlato. L’uomo fece un passo dentro il bagno, svelando il corpo della vecchia: tronco, braccia, poi altre due teste, quelle di un bambino e di una ragazza. Le gambe della vecchia toccavano terra attraversando lo sterno di entrambi. Ognuno aveva sulle labbra il medesimo ghigno.
Insieme, tutti insieme ripeté la ragazza incollata alla vecchia. Bello soggiunse il bambino con voce odiosa. L’uomo allungò una mano verso il cadavere e lo sfiorò, come studiandolo; con un movimento delicato liberò il volto dall’asciugamani intriso di sangue appiccicoso, estrasse il cacciavite e infilò indice e medio dentro la cavità orbitale. Attraverso la simbiosi col corpo della donna, Claudio avvertì distintamente quella penetrazione, sentì le dita scavare nella carne e si contrasse per una fitta di dolore. Le ultime energie lo abbandonarono: la coscienza vacillante sprofondò nel buio.
Eppure, nel buio, le sensazioni non cessarono. A sprazzi percepì altri corpi e altre identità: prima l’uomo calvo, poi la vecchia, la ragazza, il bambino... e oltre. Un vortice di pensieri inintelligibili lo risucchiò al suo interno, ingoiando e digerendo i suoi sensi, ripartendoli equamente in quel miscuglio di persone. Artigliò l’aria con mani non sue, respirò da altri polmoni, sentì il borbottio di visceri estranei. No, non estranei: lontani, diversi, ma improvvisamente familiari come una parte di sé.
Un rigurgito di coscienza gli fece riaprire gli occhi, lo strappò dolorosamente dall’affollato oblio. Vide che l’uomo, o l’appendice della Massa, aveva quasi interamente inglobato il cadavere della sua vicina; ciò che restava di lei somigliava più a degli stracci fradici e appallottolati che a un corpo umano.
Claudio non poté fare altro che rimanere a guardare ciò che stava accadendo. Il cordone che lo univa alla donna si tese, ingrossandosi nello stesso tempo, e cominciò a trascinarlo verso l’appendice della Massa, le cui teste sorridenti oscillavano a tempo e sembravano esprimere una sorta di ironico benvenuto. Confusamente, Claudio si pentì di non aver reciso il budello quando ne aveva avuto la possibilità; almeno si sarebbe risparmiato quell’orrore. L’uomo calvo allungò una mano trasfigurata verso di lui: dall’avambraccio scaturiva un intreccio luccicante di intestini che a loro volta diventavano ciò che rimaneva del ventre della donna; le dita tese, equidistanti fra loro, sbucavano come costole esposte. Il cordone confluiva proprio al centro del palmo di quella mano degenere.
Con uno strattone deciso, le Massa spostò Claudio per sovrastarlo. Il budello ebbe un fremito, si contrasse, s’accorciò e aumentò ancora di diametro. Attraverso esso, qualcosa fluì nel corpo di Claudio: sangue, energia, vita. Istantaneamente, lui ritrovò le forze. Si alzò in piedi, non perché l’avesse deciso, ma perché così aveva voluto la Massa. Un pensiero si fece largo fra gli altri, una voce più forte sovrastò le altre voci: insieme è bello. L’insieme è buono e ha ragione. Non opporre resistenza. L’insieme è tutto. Suo malgrado, Claudio si ritrovò abbracciato all’uomo calvo, la cui pelle s’aprì, accolse il corpo del nuovo arrivato e si strinse a lui con affetto. L’insieme è tutto. In migliaia urlarono dentro Claudio la stessa parola: benvenuto.
Poi basta. Claudio non fu più. Fu oltre.

Il vaccino aveva funzionato. Settanta metri di carne umana continuavano a fremere, ma perdevano progressivamente di coesione. La Massa si stava decomponendo. Oltre agli elicotteri dell’Esercito e della Protezione Civile, erano arrivate numerose camionette cariche di soccorritori in tuta isolante. Alcuni di loro, armati di motosega, si erano già messi al lavoro: staccavano, mutilandoli, i corpi di chi, oltre a essere ancora vivo, sembrava in condizioni di essere salvato. Coloro la cui fusione era troppo profonda o coinvolgeva parti vitali, invece, morivano spontaneamente oppure rimanevano uccisi nell’estrazione dei più fortunati.
Chi aveva conservato bocca e polmoni urlava, piangeva, invocava aiuto e solo alcuni seguitavano a ridere, con volti tanto gonfi e violacei che parevano prossimi a esplodere. Era il caos: un macello di arti e interiora, una palude di sangue. Ma almeno era un caos inerte.
Intrappolato nella morsa soffocante della Massa, Claudio sentiva di avere ancora un corpo; tentò di muoversi, di ruotare le spalle o almeno girare la testa, ma scoprì di non poterlo fare: dalla montagna di carne sbucava solo col capo. Allora la sua voce si unì alle altre, provò a richiamare l’attenzione dei soccorritori e il suo grido si smarrì inevitabilmente nel frastuono generale. Gli uomini in tuta protettiva non udivano le urla oppure non vi facevano più caso; continuavano la dissezione del pachiderma, gettando i pezzi amputati nei camion scoperti oppure si prodigavano per coloro che venivano estratti vivi. Giù, nella strada allagata di sangue rappreso, arrivavano in continuazione altre ambulanze, ma non sarebbero bastate quelle dell’intero pianeta, probabilmente.
I soccorritori risalivano la mostruosità conficcando chiodi da scalata nelle ossa dei corpi più martoriati che non smettevano di gemere; le loro tute, inizialmente bianche, erano ormai interamente ricoperte di sangue. Ogni pochi secondi si passavano il dorso delle mani guantate sugli occhiali protettivi per pulirli dagli umori impiastrati. Il ronzio delle motoseghe si alzava nel cielo sgombro di nuvole, cambiando di tonalità a seconda di ciò che tagliava.
Una coppia di soccorritori raggiunse Claudio quando lui, ormai, nemmeno riusciva più a sperarci. Studiarono la sua posizione e si misero all’opera. Aprirono il guscio di tessuto in cui era intrappolato spaccando le ossa dell’uomo calvo con un piede di porco e le carni si strapparono producendo uno schiocco umido. Gettarono ciò che restava di un braccio in uno dei camion e, subito dopo, una matassa sfilacciata di viscere. Poi, con pazienza e attenzione, iniziarono a operare su Claudio. Lui tenne gli occhi chiusi, mentre lo sforzo dei soccorritori si traduceva in una trazione vieppiù dolorosa dell’intero corpo. Sentì la pelle risucchiata dall’effetto ventosa dell’amalgama di corpi stretti, la loro umida mollezza che pareva fare di tutto per trattenerlo al proprio interno.
Con un ultimo strattone riuscirono ad estrarlo completamente. “Come sta? Riesce a sentirci?” domandò uno di loro.
Claudio aprì gli occhi e si vide insudiciato di sangue e brandelli di carne. Immerso in quell’orgia di liquami organici non riuscì a capire con il solo sguardo se il suo corpo fosse o no ancora integro.
“Guarda qui” disse il soccorritore al collega. Stava indicando il budello grumoso che dal ventre di Claudio si perdeva nel macello di carne. “Che ne dici? Possiamo provare a tagliarlo?” Lo tastò con aria professionale, aggrottando le sopracciglia dietro agli occhialoni protettivi. “Non sembra poi tanto grosso...” prese un paio di cesoie dalla cintura, strinse un laccio emostatico e tagliò con un gesto deciso.
In quello stesso istante i pensieri di Claudio abbandonarono quel corpo improvvisamente estraneo. Contemporaneamente ne percepì un altro, o amalgama di altri, trafitto da impulsi acuminati di dolore. Sentì la propria voce mormorare grazie, ma seppe di non aver parlato. Riuscì ad aprire un unico occhio in tempo per scorgere il suo corpo, il suo vecchio corpo, che veniva adagiato su una barella e calato verso la strada, dove altri paramedici in tuta isolante lo attendevano. Gli sembrò che sul viso ci fosse un sorriso idiota, un sorriso a cui, se avesse dovuto attribuire un’altra faccia, di certo sarebbe stata quella della donna che aveva ucciso, la sua vicina di casa.
Poi la visuale fu coperta dai soccorritori. “Per questa non c’è niente da fare...” fece uno dei due.
Il compagno aveva già imbracciato la motosega. “Mi dispiace, signora...” disse mentre il nastro dentellato cominciava a girare, “ma dobbiamo pensare agli altri”.
“Agli altri” gli fece eco il primo soccorritore, annuendo.
Poi la lama della motosega s’inabissò nella carne e riprese a separare i corpi amalgamati.

Ivo Torello è nato il 4 gennaio 1974 a Genova, dove vive e lavora nel campo della grafica.
Grande appassionato di fantascienza e horror, ama in particolare Ballard, Sterling e Lovecraft, ma nella sua libreria ha davvero di tutto, tra centinaia di tascabili ingialliti, con copertine zeppe di alieni e mostri mutanti. Pigro, dorme e mangia nelle ore sbagliate, adora Cronenberg e Fincher, ascolta musica elettronica e ha una bella fidanzata di nome Sonia.
Nel 1998 è stato finalista al V Premio Lovecraft (nono classificato) e nel 1999 al VI Premio Alien (quinto). "Amalgama" è la sua prima opera a venire pubblicata.

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