Science of the Dead. Ovvero: Festival dei Morti Viventi

Il report dell'edizione 2011 di Science plus Fiction, festival triestino del cinema fantastico e di fantascienza
di Roberto Furlani
[pubblicato su RiLL.it nel dicembre 2011]

Science plus Fiction 2011 ha aperto i battenti lo scorso 10 novembre, ma come ogni festival che si rispetti è stato anticipato da una conferenza stampa di presentazione, tenutasi il giorno 5.
Pronti via, le prime parole di Daniele Terzoli (presidente della Cappella Underground, cineteca organizzatrice della rassegna) sono state quasi di scuse anticipate.
“Anche quest’anno presenteremo un’edizione ridotta” ha esordito Terzoli “per i motivi che tutti conoscete: la crisi economica e i tagli operati nel settore della cultura.”
Mai ammissione di impotenza è stata così onesta ed esplicita.

L’incipit di Terzoli, va detto, non rientra nella pratica abbastanza comune di mettere le mani avanti, ma denuncia una difficoltà sostanziale che sarebbe emersa in modo piuttosto inequivocabile nei giorni successivi.
Edizione ridotta, sì, e infatti il Festival è durato solamente quattro giorni, ma non per questo scevra di buoni colpi e di buoni propositi.
Se lo scorso anno la Cappella Underground aveva tentato di sopperire alla penuria di risorse finanziarie allestendo uno spazio Cina (poi in larga parte naufragato a causa di un misunderstanding tra Lorenzo Codelli e la cineteca di Pechino che avrebbe dovuto fornire le pellicole; rimase solamente la presentazione dell’antologia “Shi Kong: China Futures”, edita da Urania), stavolta il jolly da giocare si chiamava George Romero.

Il regista è stato l’ospite d’onore di quest’edizione di Science plus Fiction: è stato presente al Cinecity (il cinema multisala dove si svolge il grosso della manifestazione) per la consegna dell’Urania d’Argento prima e per un incontro col pubblico poi; inoltre è stato protagonista di una tavola rotonda che si è svolta nell’aula magna della Scuola Interpreti.
Ma soprattutto è stato presente sui grandi schermi del Festival, che ha occupato con ben cinque film: Night of the Living Dead (noto alle nostre latitudini come La notte dei morti viventi, opera prima di Romero; non che le successive avrebbero aggiunto molto a quanto detto da questo film del ’68), Dawn of the Dead, Survival of the Dead, Martin e Diary of the Dead.

Il comun denominatore di queste opere (oltre al “dead” presente in quattro dei cinque titoli: repetita iuvant) è costituito dallo zombi, figura ricorrente nella filmografia di Romero, che deve il proprio successo a questi cadaveri incapaci di starsene tranquilli sotto terra.
Nel corso degli anni ci sono stati diversi tentativi, peraltro piuttosto maldestri, di “rivalutare” i B-movie di Romero, offrendone un’interpretazione sociologica. La cosa non dovrebbe apparire né significativa né sorprendente se si pensa che attorno al 2005 la stessa critica cinematografica si è cimentata in un’opera analoga proponendosi di riscoprire il cinema di Alvaro Vitali e che prima ancora qualcuno si era impegnato a riabilitare Franco Franchi e Ciccio Ingrassia.
Al di là di questi vezzi civettuoli, dialettici prima che intellettuali, è fuor di dubbio che Romero abbia lasciato un’impronta indelebile sulla storia del cinema e, tornando a ciò che più ci interessa in questo momento, a Science plus Fiction 2011.

È evidente, infatti, che sull’onda di Romero e dei suoi zombi quest’edizione è stata fortemente polarizzata sull’horror, lasciando un ruolo minoritario alla science-fiction.
Come altre volte, ciò conferma che la denominazione Science plus Fiction è inappropriata, così come il sottotitolo con cui si suole chiamare la rassegna per sottolineare la parentela con il suo precursore: Festival della Fantascienza. In realtà si tratta di un Festival del Fantastico a tutto tondo, dove spesso e volentieri la parte del leone la recitano i film dell’orrore.
Fermo restando questo, e una volta entrati nell’ordine delle idee di accettare un taglio tutt’altro che “purista” del Festival, rimane comunque stonata l’assegnazione dell’Urania d’Argento a Romero, visto che dai nostri paraggi “Urania” significa fantascienza. Del resto, nulla di nuovo sotto il sole (dei morti viventi?): in passato questo premio è stato tributato a Dario Argento e a Pupi Avati, due alfieri nostrani del cinema horror.

Ciononostante, a vincere l’edizione 2011 di Science plus Fiction è stato Monsters, un bel film di fantascienza inglese, a cui peraltro è spettato l’onore di aprire la rassegna. Non inganni il titolo (e del resto perché dovrebbe? Il regista Gareth Edwards non ha mica intitolato la propria opera “Monsters of the Dead”!): non ci sono risvolti orrorifici in questa storia di alieni sbarcati sul nostro pianeta in modo alquanto inconsueto. Stavolta non occorrono peripezie logiche o estrapolazioni ardite per individuare un impegno sociologico tangibile e robusto, che nella fattispecie si focalizza sulla politica estera USA.

La pellicola intesa come strumento di indagine sociale è un leitmotiv che viene proposto, in maniera molto più smaccata, da L’ultimo terrestre, del navigato fumettista e neo-regista Gian Alfonso Pacinotti, meglio conosciuto come Gipi.
È un titolo che nel recente passato era già stato distribuito, riscuotendo gli entusiasmi della critica ma anche l’indifferenza del pubblico, che ne decretò l’insuccesso.
Si tratta di un film in cui la fantascienza è manifestamente un pretesto per parlare d’altro, al punto che gli alieni sembrano dei bambini vestiti per carnevale da omino Michelin. È una scelta probabilmente indovinata, visto che alimenta la carica ironica del film, il quale ha senz’altro il pregio di unire in modo sapiente e omogeneo situazioni divertenti a frangenti di riflessione e persino di angoscia.
A scanso d’equivoci, però, va precisato che non stiamo parlando di Charlie Chaplin: accanto a questa virtù ci sono altri meriti che debbono essere sottolineati, ma anche dei pesanti difetti a causa dei quali L’ultimo terrestre è un lavoro con luci e ombre.
Perché se ci sono i meriti dell’impronta satirica sui piazzisti del nostro tempo, della riflessione sociologica sulle discriminazioni, del ritmo gradevole e delle inquadrature luminose, sull’altro piatto della bilancia vanno messe un’eccessiva dose di retorica (il tema dell’eterna lotta tra il Bene e il Male e la speranza di una redenzione che venga dall’alto sembrano messe apposta per sfondare porte aperte e catturare consensi) e un finale convulso e farraginoso dove si smarrisce qualsiasi logica e nesso di causalità.

Meno incerta, sul fronte dei film impegnati, è una produzione franco-messico-spagnola intitolata Anche la pioggia, di Iciar Bollain, che parla dei soprusi perpetrati dalle grosse multinazionali dell’acqua ai danni del popolo boliviano e dei tumulti che si sono verificati quando la società civile si è ribellata.
“Ma cosa c’entra con la fantascienza?”, mi chiederete. Forse niente, e infatti la proiezione di Anche la pioggia è avvenuta formalmente fuori dal contesto del Festival (di preciso un giorno prima dell’apertura ufficiale di Science plus Fiction: era inserita nell’ambito della Settimana UNESCO di educazione allo sviluppo sostenibile), ma vale la pena menzionare questa pellicola per due motivi. Il primo è che si tratta di una delle cose migliori che si siano viste nella settimana di Science plus Fiction 2011, forse seconda solo a Monsters; il secondo è che per sensibilità e impegno civico Anche la pioggia è molto più vicino alla fantascienza di quanto lo siano molte delle proiezioni inserite nel programma del Festival.

Anche la pioggia è un film che si situa a metà tra la fiction e il documentario. Una scelta molto più radicale la compie il regista tedesco Werner Herzog, con Cave of Forgotten Dreams, presentato nella giornata inaugurale di S+F 2011.
Si tratta di un’escursione nella grotta di Chauvet, in Francia meridionale, dove sono stati rinvenute le più antiche pitture rupestri mai scoperte, opere dell’uomo di Cro-Magnon di 32.000 anni fa.
Come sarà facile immaginare, qui l’aspetto documentaristico prevale imperiosamente su quello della fiction, di cui lo spettatore riceve a malapena un assaggio nel colpo di coda finale.
Da un punto di vista storico e culturale il lavoro di Herzog suscita un notevole interesse e fascino; peccato che perda molto del proprio appeal proprio nella scelta che (secondo le intenzioni del regista) avrebbe dovuto fare la differenza rispetto ai tradizionali documentari. L’utilizzo del 3D risulta di norma pretestuoso, superfluo e lezioso, ma l’adozione di questa tecnica in un documentario appare addirittura masochista, specie se accompagnata da una musichetta di sottofondo che definire seccante è riduttivo. Purtroppo per Herzog, il 3D non conferisce agli animali dipinti sulle pareti della grotta di Chauvet né dinamismo né vitalità, ma infastidisce lo spettatore con un tentativo fallimentare e reiterato.
Per dirla in altri termini, Cave of Forgotten Dreams sarebbe stato uno splendido documentario se il regista non avesse avuto la velleità di farne qualcosa di più di un documentario. Sarebbe stato sufficiente evitare il 3D, proporre qualche intervista in più e qualche fermo immagine in meno e far durare il tutto una ventina di minuti in meno per ottenere un ottimo prodotto, invece le buone intenzioni di Herzog vengono soffocate dalla noia e da una speciosità fuori luogo, che riducono Cave of Forgotten Dreams a un esperimento interessante di qualità accettabile.
Rimane comunque il merito di aver tentato qualcosa di nuovo, che si distingue dagli zombi di Romero, dai troll di Troll Hunter, dal mostro trasformista di The Thing, dal perfido San Nicolò di The Saint.

Finora non ho parlato di fantascienza, tranne che per raccontare del gradito exploit di Monsters.
In realtà Science plus Fiction 2011 ha proposto altre pellicole ascrivibili in modo più o meno pertinente alla science fiction: è il caso dell’italiano L’arrivo di Wang e di Extraterrestrial, ma anche del nipponico Gantz (per quanto sia un videogioco strappato di forza alla Play Station e buttato di peso su celluloide), del film di animazione su bambini e poteri ESP The Prodigies, di The show must go on (una sorta di versione truce di “The Truman Show”), di Target, polpettone russo sull’alta borghesia del futuro alla ricerca della felicità, e di The nuclear family (benché non si discosti un granché dai film sugli zombi, per quanto i presupposti siano leggermente diversi).

Qualche parola in più la merita (per il risultato, non certo per il valore del prodotto, ci mancherebbe) Stake Land, vincitore del Premio del Pubblico.
Si accennava in precedenza all’incongruenza che spesso sussiste tra giudizio della critica e gusti del pubblico, e questo film americano di Jim Mickle testimonia alla perfezione come talora gli appetiti dello spettatore risultino incomprensibili a chi si propone di analizzare un lungometraggio nella maniera più obiettiva e serena possibile.
Stake Land è in buona sostanza un “Karate Kid” in salsa horror: al posto dei bulli della palestra concorrente ci sono delle creature mostruose, al posto dell’anziano maestro Miyagi c’è un uomo di mezz’età dal girovita da impiegato del catasto e al posto di Ralph Macchio c’è ragazzo uguale a Ralph Macchio, ma sono dettagli. Jim Mickle non sapeva se usare come “cattivi” dei vampiri o degli zombi (ma va?), così nel dubbio ha optato per degli zombi che sono anche vampiri, tanto per non sbagliare. Crepi l’avarizia!
Va detto, per onestà intellettuale, che Stake Land ha pure un pregio non da poco: quello di essere stilisticamente ben fatto, godendo di una buona regia e una fotografia spettacolare. In altre parole, contenuti di una miseria inaudita ma confezione elegante. Di certo, per quanto riguarda le riprese, Werner Herzog avrebbe parecchio da imparare da Mickle, ma forse lo stesso Mickle dovrebbe sforzarsi un po’ di più nella ricerca di trame più robuste e con una parvenza di originalità (e non mi riferisco al fatto di proporre una rivisitazione de “Il ragazzo dal kimono d’oro” anziché di “Karate Kid”).

Tracciare un bilancio dell’edizione di Science plus Fiction che abbiamo alle spalle non è semplice. A livello di organizzazione direi che siamo sugli standard del 2010, con la differenza (affatto trascurabile) che l’asso nella manica (lo spazio destinato a George Romero) ha funzionato alla grande.
In generale si può affermare che la qualità delle proiezioni è stata inferiore a quella del recente passato: tendenzialmente i film si aggiravano attorno alla soglia della sufficienza, ma il più delle volte ne rimanevano al di sotto.
Come si è detto, hanno costituito due mirabili eccezioni Monsters e Anche la pioggia, ma quest’ultimo (a rigore) non apparteneva alla rassegna e di conseguenza l’opera di Gareth Edwards risulta la migliore tra quelle presentate per manifesta superiorità o, se preferite, per mancanza di avversari all’altezza. L’oscillazione della qualità complessiva dei film in un festival, comunque, è un fenomeno fisiologico, e di questo non si può dare colpa alla Cappella Underground.
Cappella Underground che si è dimostrata ancora una volta abile a fare le nozze con i fichi secchi: in tempi di crisi e di reticenza da parte delle istituzioni a finanziare la cultura, il team capitanato da Daniele Terzoli ha dimostrato come con l’inventiva si possa supplire alla mancanza di risorse economiche.
Un merito, questo, che è stato riconosciuto in primis dagli spettatori, visto che Science plus Fiction 2011 ha contato ben 15.000 presenze, segno che negli anni passati questa manifestazione si è guadagnata un credito di tutto rispetto agli occhi del grosso pubblico, probabilmente ancora ben lungi dall’essere esaurito.

C’è di che sentirsi confortati, dunque, anche in prospettiva. Nell’auspicio di vedere nel 2012 un po’ di fantascienza in più.

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